lunedì 7 marzo 2011

1. Architettura e il metodo della partecipazione

“Vorrei essere libero, libero come un uomo.
[…] la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.”

Giorgio Gaber, La libertà 1972
da ‘Dialogo tra un impegnato e un non so’

Per architettura si intende quella particolare disciplina che ha come scopo l’organizzazione dello spazio in cui vive l’essere umano. In altre parole semplificando si può dire che attiene principalmente alla progettazione e alla costruzione di un im-mobile o dell’ambiente costruito. L’architettura è quindi direttamente collegata non solo alla qualità degli spazi, ma necessariamente anche alla stessa qualità della vita, argomento quest’ultimo quanto mai di moda in questi anni.
Per dirla con Aldo Rossi l’architettura è ciò che fa da vera e propria quinta, da scena alla ‘rappresentazione’ della vita quotidiana. Questa idea tanto affascinante va a sot-tolineare l’influenza, spesso non conscia, che l’architettura ha nella vita di tutti i giorni di ogni uomo (è noto ad esempio quanto degrado urbano e degrado sociale vadano di pari passo). Ed è proprio su questo punto che le due principali visioni dell’architettura sviluppatesi nel secolo scorso, e più nello specifico nella seconda metà del ‘900, si allontanano:
• da una parte viene messo in primo piano l’aspetto artistico della materia: se-condo i seguaci di questo pensiero la massima realizzazione di quest’arte sta nel disegno stesso. La realizzazione dell’idea architettonica infatti non può mantenere lo stesso livello di perfezione che raggiunge attraverso il disegno.
• Dall’altra parte invece si mette in evidenza l’aspetto funzionale e sociale dell’architettura: questa disciplina deve creare per le persone, non per i com-mittenti, deve rappresentarle e cercare di semplificare la loro quotidianità.
Purtroppo anche nel contesto contemporaneo italiano sembra prevalere la prima del-le due visioni suddette: lo dimostra il sempre maggior ricorso alle cosiddette archi-star, soprattutto nei casi di emergenza, o comunque la continua imposizione da parte delle istituzioni di progetti antefatti che pretendono di essere rappresentativi della po-polazione, ma che evidentemente non possono esserlo.
Quello che generalmente prevale oggi è quindi l’importanza della forma, dei valori fi-gurativi e la progettazione senza la presa in considerazione delle persone. Anche nelle riviste di architettura è evidente questa tendenza: le immagini ritraggono per lo più edifici senza uomini che li vivono. Nessuna idea su come le persone potranno usarli è offerta.

Uno dei primi teorici e applicatori dell’idea di architettura pensata “per l’uomo che c’è” , e non per come si pensa debbano essere gli uomini, è l’ingegnere architet-to Giancarlo De Carlo (Genova 1919 – Milano 2005), che, in maniera provocatoria , in una conferenza a Melbourne nel 1973 afferma “la prospettiva che, in realtà, mi sembra molto interessante è quella di sottrarre l’architettura agli architetti per resti-tuirla alla gente che la usa” , diversamente questa disciplina è destinata a morire. L’architettura del futuro secondo De Carlo, che si rifà alle innovative teorie anglosas-soni all’ora in auge , è quindi strettamente ancorata a una sempre maggiore parteci-pazione dell’utente nella definizione del progetto e nella realizzazione stessa dell’edificio.
Perché ci sia partecipazione è necessario che gli utenti siano presenti durante tutto il corso dell’operazione: dalla progettazione alla realizzazione dell’opera inclusa. In questa maniera il progettista è sottoposto ad un continuo confronto con i futuri fruito-ri, discussione che lo porta ad adottare soluzioni innovative a sfavore dei modelli tra-dizionalmente adottati. Conseguentemente De Carlo propone di abbandonare il tra-dizionale iter del progetto architettonico costituito da:
1. Definizione del problema
2. Elaborazione della soluzione progettuale e realizzazione
3. Valutazione dei risultati
e di adottare invece una nuova suddivisione delle fasi della creazione architettonica, che considera:
• ogni momento dell’opera architettonica come fase del progetto;
• l’uso del fabbricato come fase da non sottovalutare per nessuno motivo;
• la verifica della riuscita o meno dell’opera come soddisfazione delle esigenze degli utenti.
De Carlo afferma quindi che il metodo della partecipazione, che definisce anche co-me unico strumento valido di acquisizione di conoscenze nel processo architettonico, “Si oppone […] a distacco, separazione, esclusione; ma anche generalizzazione, teo-rizzazione, astrazione. È sinonimo di coinvolgimento di persone e cose, di riesuma-zione di strati profondi di conoscenza, di riconnessioni di legami interrotti o celati, di presenza in prima persona nei fatti dell’architettura, vissuti con il cuore prima ancora che con la mente” . La partecipazione per De Carlo è quell’insieme di processi e di operazioni da condurre con gli altri, siano essi futuri fruitori o semplicemente abitanti del luogo: queste operazioni dovranno dapprima cogliere gli autentici bisogni, che in un secondo tempo, con la realizzazione del progetto elaborato, dovranno essere soddisfatti.