“Vorrei essere libero, libero come un uomo.
[…] la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.”
Giorgio Gaber, La libertà 1972
da ‘Dialogo tra un impegnato e un non so’
Per architettura si intende quella particolare disciplina che ha come scopo l’organizzazione dello spazio in cui vive l’essere umano. In altre parole semplificando si può dire che attiene principalmente alla progettazione e alla costruzione di un im-mobile o dell’ambiente costruito. L’architettura è quindi direttamente collegata non solo alla qualità degli spazi, ma necessariamente anche alla stessa qualità della vita, argomento quest’ultimo quanto mai di moda in questi anni.
Per dirla con Aldo Rossi l’architettura è ciò che fa da vera e propria quinta, da scena alla ‘rappresentazione’ della vita quotidiana. Questa idea tanto affascinante va a sot-tolineare l’influenza, spesso non conscia, che l’architettura ha nella vita di tutti i giorni di ogni uomo (è noto ad esempio quanto degrado urbano e degrado sociale vadano di pari passo). Ed è proprio su questo punto che le due principali visioni dell’architettura sviluppatesi nel secolo scorso, e più nello specifico nella seconda metà del ‘900, si allontanano:
• da una parte viene messo in primo piano l’aspetto artistico della materia: se-condo i seguaci di questo pensiero la massima realizzazione di quest’arte sta nel disegno stesso. La realizzazione dell’idea architettonica infatti non può mantenere lo stesso livello di perfezione che raggiunge attraverso il disegno.
• Dall’altra parte invece si mette in evidenza l’aspetto funzionale e sociale dell’architettura: questa disciplina deve creare per le persone, non per i com-mittenti, deve rappresentarle e cercare di semplificare la loro quotidianità.
Purtroppo anche nel contesto contemporaneo italiano sembra prevalere la prima del-le due visioni suddette: lo dimostra il sempre maggior ricorso alle cosiddette archi-star, soprattutto nei casi di emergenza, o comunque la continua imposizione da parte delle istituzioni di progetti antefatti che pretendono di essere rappresentativi della po-polazione, ma che evidentemente non possono esserlo.
Quello che generalmente prevale oggi è quindi l’importanza della forma, dei valori fi-gurativi e la progettazione senza la presa in considerazione delle persone. Anche nelle riviste di architettura è evidente questa tendenza: le immagini ritraggono per lo più edifici senza uomini che li vivono. Nessuna idea su come le persone potranno usarli è offerta.
Uno dei primi teorici e applicatori dell’idea di architettura pensata “per l’uomo che c’è” , e non per come si pensa debbano essere gli uomini, è l’ingegnere architet-to Giancarlo De Carlo (Genova 1919 – Milano 2005), che, in maniera provocatoria , in una conferenza a Melbourne nel 1973 afferma “la prospettiva che, in realtà, mi sembra molto interessante è quella di sottrarre l’architettura agli architetti per resti-tuirla alla gente che la usa” , diversamente questa disciplina è destinata a morire. L’architettura del futuro secondo De Carlo, che si rifà alle innovative teorie anglosas-soni all’ora in auge , è quindi strettamente ancorata a una sempre maggiore parteci-pazione dell’utente nella definizione del progetto e nella realizzazione stessa dell’edificio.
Perché ci sia partecipazione è necessario che gli utenti siano presenti durante tutto il corso dell’operazione: dalla progettazione alla realizzazione dell’opera inclusa. In questa maniera il progettista è sottoposto ad un continuo confronto con i futuri fruito-ri, discussione che lo porta ad adottare soluzioni innovative a sfavore dei modelli tra-dizionalmente adottati. Conseguentemente De Carlo propone di abbandonare il tra-dizionale iter del progetto architettonico costituito da:
1. Definizione del problema
2. Elaborazione della soluzione progettuale e realizzazione
3. Valutazione dei risultati
e di adottare invece una nuova suddivisione delle fasi della creazione architettonica, che considera:
• ogni momento dell’opera architettonica come fase del progetto;
• l’uso del fabbricato come fase da non sottovalutare per nessuno motivo;
• la verifica della riuscita o meno dell’opera come soddisfazione delle esigenze degli utenti.
De Carlo afferma quindi che il metodo della partecipazione, che definisce anche co-me unico strumento valido di acquisizione di conoscenze nel processo architettonico, “Si oppone […] a distacco, separazione, esclusione; ma anche generalizzazione, teo-rizzazione, astrazione. È sinonimo di coinvolgimento di persone e cose, di riesuma-zione di strati profondi di conoscenza, di riconnessioni di legami interrotti o celati, di presenza in prima persona nei fatti dell’architettura, vissuti con il cuore prima ancora che con la mente” . La partecipazione per De Carlo è quell’insieme di processi e di operazioni da condurre con gli altri, siano essi futuri fruitori o semplicemente abitanti del luogo: queste operazioni dovranno dapprima cogliere gli autentici bisogni, che in un secondo tempo, con la realizzazione del progetto elaborato, dovranno essere soddisfatti.
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lunedì 7 marzo 2011
giovedì 27 gennaio 2011
giovedì 23 dicembre 2010
E così ci siamo anche quest’anno..
mercoledì 10 novembre 2010
Antimodernismo o Fobia?
Dopo aver letto l'articolo "Dangerously Insane" di Deyan Sudjic, che presenta il libro di Leon Krier "The Architecture of Community", mi sono sorte alcune questioni.
Questo Krier viene rappresentato come un soggetto dall’aspetto semplice, sempre vestito di lino e con i capelli ‘scapigliati’, insomma dall’apparenza non sembra proprio un architetto. E anche per le sue idee: infatti Krier non costruisce! ‘A responsiblearchitect cannot possibly built today’ ‘ ..no respectable architect could build anything with a clear conscience…’. Questo non per motivazioni legate all’utilizzo spregiudicato che nell’ultimo secolo in particolare si è fatto dell’ambiente, ma perché costruire secondo lui significherebbe prendere parte al crimine del secolo: la distruzione della tradizionale città europea. Pur sostenendo questo si ritiene aperto allo sviluppo e ad accettare quindi l’idea di pensare alle città come città adatte anche alle automobili.
Quello che ho percepito io invece è stato un atteggiamento di questo tipo: "il vetro, l’acciaio e il cemento armato li posso anche capire, ma il mattone e la calce sono strafichi!! Perché andare avanti quando sappiamo che quelli sono ottimali?". Adesso così ho chiaramente un tantino provocato (considerando con i materiali anche le costruzioni e le tipologie delle epoche storiche in cui tali materiali sono stati prevalentemente utilizzati).
Comunque ti rimando all’articolo, per avere una lettura più approfondita. A questo punto mi sono sorte un paio di questioni:
1. è vero che ultimamente sembra andare di moda solo l'archistar, e cioè quell'architetto che realizza costruzioni strane a caso solo per colpire l'attenzione del passante. Però molte persone non sanno che dietro tante forme apparentemente improbabili, come possono essere generalmente le costruzioni di Calatrava per esempio, c'è una ricerca non solo a livello ingegneristico ma anche matematico (e spesso si fa riferimento alle forme che ci sono in natura). Questo perché attraverso lo studio di curve matematiche nello spazio tridimensionale, vogliono trovare forme che siano più resistenti di quelle che già conosciamo e utilizziamo. Un esempio tanto contraddetto è il Turning Torso, che come già saprai è stato costruito come fosse ‘avvitato’ su sé stesso per resistere con minor sforzo alle spinte del vento.
2. e poi una cosa che salta subito all’occhio è questa fobia questo rigetto per le nuove costruzioni nei centri storici. Ma perché??..forse nel passato si ponevano dei problemi su dove posizionare la cattedrale gotica se vicino a una pieve o meno? Perché dovremmo cominciare a farlo adesso?? Ma soprattutto, la mia questione è questa: rimanendo così ancorati alle tipologie ed ai materiali tradizionali, non è che si finisce per non avere l’apertura sufficiente per andare avanti?? Non rischiamo di fossilizzarci un tantino pensando sempre di dover stare al di sopra delle mode e considerando gran parte delle innovazioni come tali?
giovedì 28 ottobre 2010
Ma cos'è la cultura?
In un periodo così critico per la cultura (e non solo) italiana, Elisabetta Sgarbi è andata in giro per il Bel Paese a chiederlo direttamente alla gente: si è rivolta a persone semplici, così come a professori universitari, a lavoratori anziani e non, ma anche a persone appartenenti alla cosiddetta nobiltà, ed ancora a ragazzi e a giovani…comunque tutti italiani! È in questa maniera che è nato il film-documentario, presentato anche il festival del cinema di Venezia di quest’anno, intitolato “Se Hai una montagna di neve lasciala all’ombra” (che tra l’altro a breve sarà trasmesso anche dalla RAI).
Ad affiancare Elisabetta in questo vero e proprio viaggio attraverso le diverse Regioni italiane si sono susseguiti nel ruolo di intervistatore diretto Edoardo Nisi, scrittore, ed Eugenio Lio, teologo.
Quando e se ne prendi visione fammi sapere cosa ne pensi!
Il tentativo, anche alla presentazione, è stato quello di proporre un filmato semplice e leggero, nonostante la pesantezza del tema, di creare un documentario che si presentasse come un’insieme di opinioni sincere e spontanee, non preparate.
Secondo me il risultato del loro lavoro è stato senz’altro piacevole se non altro grazie alle particolari inquadrature, che danno interessanti tagli agli scenari spesso caratterizzati anche da luci insolite, non meno azzeccate sono state le musiche (di Battiato); ecco sicuramente questi due elementi danno un tocco di personalità al filmato, ma quanto al non preparato francamente ho qualche dubbio..Ad ogni modo quello che ho sentito è stata una costante distanza degli addetti alla creazione del filmato dal mondo dei 'non intellettuali'. Ma può essere una mia percezione distorta, essendo particolarmente sensibile al tema..
Allora prossimamente “Se hai una montagna tienila all’ombra”! Mi raccomando!
domenica 17 ottobre 2010
..e noi come ci stiamo muovendo??
“La cultura è l’unica garanzia per la libertà” questo è ciò che emerge dalle parole di Jamila Hassoune, una donna coraggiosa che si è battuta e tuttora si batte per la diffusione della cultura nel suo Paese. La sua esemplare iniziativa parte dal Marocco ed in particolare da Marrakech; è qui che sin da piccola vive con la sua famiglia e il padre libraio, il quale trasmette alla piccola Jamila il grande valore che la cultura ha come elemento fondamentale per il vivere liberi. Ed è in questo clima che, una volta cresciuta ed assunte le redini della libreria del padre, pensa di diffondere la cultura nel suo Paese. E il modo in cui è riuscita a farlo è del tutto originale!
Una volta cresciuta ed assunte le redini della libreria del padre si rende conto che sono pochi i marocchini che frequentano il suo negozio. Intuendo quale fosse la problematica alla base di questo fenomeno, decide di aggiungere nel suo negozio un tavolo per permettere alla gente di consultare i libri e non solo di comprarli; in questo modo riesce a coinvolgere molte più persone. Ma Jamila non ha ancora raggiunto il suo obiettivo, perché ha sì avvicinato ai libri più persone, ma sono tutte di città, vuole coinvolgere anche la gente delle campagne e delle montagne marocchine! Ma come??
Con la caravan de livre! Considerando le grandi distanze e la difficoltà delle strade da percorrere Jamila ha pensato che le persone dei villaggi fuori dalla città non sarebbero potute andare alla sua libreria, così ha caricato la sua macchina di libri ed è cominciata l’avventura che dura tuttora: una vera e propria carovana di libri che dalla città si sposta da un paese all’altro cercando di incuriosire quanto più possibile le persone che incontra e dando ai giovani e alle donne di quei luoghi l’occasione importante di poter leggere e quindi di poter acculturarsi. È evidente che questa iniziativa ha anche come obiettivo quello di creare un dialogo tra le diverse culture che vengono ad incontrarsi, dialogo che fa crescere e che si contrappone quindi alla diffidenza verso il diverso.
Jamila Hassoune si sta battendo perché il dialogo e la comprensione tra diverse realtà aumenti e perché si annulli la relazione che c’è tra la minore istruzione della popolazione e la sua maggiore esposizione al controllo politico.
mercoledì 13 ottobre 2010
DEGRADO E ALTERSWERT (VALORE DELL'ANTICO)
Il concetto di degrado è indissolubilmente legato a quello di ‘esistenza’: la vita stessa può essere vista come una progressione verso l’invecchiamento che si conclude nella totale dissoluzione,la morte. Se pensiamo ad esempio alla termodinamica ed in particolare al secondo principio, e al concetto quindi di entropia, è facile dimostrare questa analogia: come un sistema irreversibile disperde energia nel tempo, così l’universo che risulta essere il ‘sistema vivente dei sistemi viventi’ tenderebbe si all’espansione ma anche alla progressiva perdita di energia ed alla sua conseguente estinzione. Pensare alla vita spesso implica il confronto con il regno animale e gli esseri che ne fanno parte, tuttavia è facile vedere anche oggetti inanimati, ed in particolare architetture, come vere e proprie forme di vita di per sé esistenti. In questo senso allora è facile accostare il fenomeno del degrado che si manifesta a livello delle architetture ( e quindi penso al cambiamento del colore e della forma, alle alterazioni e al deperimento dei materiali costitutivi, …), come un vero e proprio invecchiamento fisiologico.
Il valore dell’antico secondo Riegl è rappresentato dalla cosiddetta patina del tempo, peculiarità positiva e affascinante tipica degli edifici costruiti nel passato. Il concetto di ‘Alterswert’ è quindi il valore positivo che l’uomo dà a tutto ciò che appare vecchio. Credo che la forza di questo concetto non stia nell’accettare il naturale degrado della forma di una qualsiasi fabbrica antica, ma nel passo successivo ovverosia nel trasformare la considerazione di questo deperimento da mancanza a vera e propria risorsa (ragionamento questo che suona così anacronistico e distante dai moderni modelli di consumo e stili di vita proposti dalle nostre civiltà occidentali). Sotto un certo punto di vista questa forma di invecchiamento, tipica dell’edificio che ha un riconosciuto ‘valore dell’antico’, è molto simile a quella relativa al degrado: in entrambi i casi si verificano una deturpazione della forma, dei possibili cambiamenti nel colore e nei materiali che la compongono, .. La differenza sostanziale tra queste due posizioni tuttavia sta nella timica, nel loro ‘segno’ inteso in senso matematico: nel primo caso questa mancanza è percepita in senso negativo, mentre nel secondo al contrario è vista in senso positivo.
Credo che il motivo di questa distinzione tra fabbrica degradata ed edificio caratterizzato da un evidente ‘valore dell’antico’ risieda nella percezione che l’astante ha dell’oggetto in questione. Un oggetto percepito come degradato non solo è deficitario in molte sue parti, ma secondo il mio parere risulta essere un oggetto illeggibile agli occhi dell’osservatore: quest’ultimo cioè non riesce ad intuire le funzioni originarie dell’oggetto, ma nemmeno i ruoli per cui era stato pensato. Allora non si percepisce un’antica rovina, ad esempio la thòlos di Delfi, come un insieme di elementi tra loro sconnessi (quindi un oggetto semplicemente degradato), ma come un'opera caratterizzata da un chiaro ‘Alterswert’: anche agli occhi meno preparati in materia risulta evidente che quelle colonne dovevano sorreggere una copertura e che quei piccoli cilindri scanalati di marmo un tempo dovevano essere altre colonne. Quindi se l’osservatore si confronta con un qualsiasi elemento antico che però non riesce a leggere, l’oggetto in questione non assumerà per la persona nessun valore dell’antico, bensì sarà solo un oggetto degradato. Concludendo vedo il fulcro del rapporto tra degrado e valore dell’antico in senso Riegliano nelle mani del soggetto, del fruitore, dell’osservatore.
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